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Suono e rabbia: in che modo la pronuncia provoca delle reazioni passionali

La bellezza dell’ascoltare riposa nelle orecchie dell’ascoltatore ma concentrarsi sui suoni che non ci piacciono significa perdere le ricchezze, il potere e la bellezza del sistema sonoro inglese.
Quando ero solito presentare programmi sul canale English usage su Radio 4, le persone avrebbero scritto e si sarebbero lamentate riguardo alle pronunce che non piacevano loro. A centinaia (nessuno ha mai scritto per lodare una pronuncia che gli era piaciuta). Era l’estrema natura del linguaggio che mi colpiva sempre. Gli ascoltatori utilizzavano le parole più emotive alle quali potevano pensare. Erano inorriditi, sconvolti, allibiti, esterrefatti, oltraggiati, quando sentivano qualcosa che non piaceva loro.
Perché le persone sono particolarmente appassionate della pronuncia, usando il linguaggio che noi potremmo ritenere più appropriato come una reazione a un attacco terroristico piuttosto che una “r” di troppo (come in “ordine-r- pubblico”)? Una delle ragioni è che la pronuncia non è come le altre parti del discorso che generano lamentele, come il lessico e la grammatica. Può non piacerti il modo in cui le persone utilizzano una parola determinata, come se fossero disinteressate, ma non incontrerai spesso questo problema. Allo stesso modo, se non ti piace l’utilizzo dell’infinito, non lo sentirai spesso. Ma ogni parola deve essere pronunciata, così se non ti piace il suono di un accento, o il modo in cui qualcuno fa cadere le consonanti, accenta le parole, o intona una frase con una intonazione crescente, non c’è via di scampo. La pronuncia è sempre lì, nelle tue orecchie.
Un’altra ragione è che la pronuncia non è soltanto il fondamento della chiarezza e dell’intellegibilità, ma esprime anche l’identità. Quando ascoltiamo qualcuno che parla la nostra lingua, non soltanto riconosciamo le parole che vengono dette, ma anche chi le sta pronunciando. È la pronuncia, più che qualsiasi altra cosa, che fa sembrare una persona inglese, americana o indiana; di Liverpool, Newcastle o Londra. È la pronuncia - ancora, più di qualsiasi altra cosa – che ci dà un indizio rispetto al gruppo etnico di chi parla, alla classe sociale, all’educazione o all’impiego. Così è sempre un argomento potenzialmente sensibile.
L’identità è di primaria importanza. Le mie critiche legate alla BBC non suggerivano generalmente che gli ascoltatori non potevano capire che cosa i presentatori stavano dicendo; si stavano lamentando rispetto a come lo stavano dicendo. Alcune critiche erano estetiche: una pronuncia può essere definita brutta o sciatta. Alcune esprimevano disappunto su di un accento. Poi c’era il commento occasionale sull’incomprensibilità, come quando i presentatori enfatizzavano una parola in maniera ambigua o facevano cadere la propria voce in un momento critico. Ma tipicamente, quando le persone si riferivano a una pronuncia inaccettabile, non stavano pensando al contenuto ma a come questo veniva presentato.
Oggi è lo stesso. A volte le critiche riflettono una situazione con il quale tutti sarebbero d’accordo, perché si fonda su di un fatto oggettivo: se una voce è genuinamente inascoltabile, o qualcuno parla così velocemente che è impossibile seguirlo (come su un impianto di amplificazione), non c’è niente di cui discutere. Ma la maggior parte delle lamentele sulla pronuncia non sono così: sono problemi di gusto, dove il punto di vista riflette delle percezioni differenti rispetto a cosa è appropriato, piacevole o corretto - la bellezza dell’ascoltare, che riposa nelle orecchie dell’ascoltatore.
Ho scritto “Sounds Appealing” per introdurre una prospettiva più ampia – non per ignorare i problemi, ma per metterli in prospettiva, come una piccola parte dell’enorme scelta, complessità, potere e bellezza del sistema sonoro inglese. La fonetica apre le nostre orecchie a un mondo affascinante. Perché dovremmo preferire certi suoni quando scriviamo poesie, cantiamo filastrocche, ideiamo nomi intelligenti per un personaggio o imprechiamo? Ci sono modelli fonetici potenti e produttivi i quali sottolineano “quel che è bello e quel che è brutto”, “bibidi-bobidi-bu”, Augustus Gloop, e un’imprecazione. Hanno bisogno di essere apprezzati. O ancora: che cosa succede al nostro discorso nelle situazioni inusuali, come quando proviamo a parlare con la bocca piena o coperta? Le occasioni vanno ben al di là di quando mangiamo – si pensi al dentista oppure a Darth Vader.
Poi c’è la dimensione temporale – l’inesorabile processo del cambio di pronuncia. Come scopriamo i suoni di un discorso del passato? Possiamo ascoltare Florence Nightingale, in una vecchia registrazione, leggere gli appunti di Isaac Newton che descrivono il suo accento, e ascoltare l’archivio della BBC, ma come possiamo ricostruire Shakespeare, Chaucer o Beowulf? E per quanto riguarda il futuro? I grandi problemi di pronuncia ci si presentano in questo secolo – non per ultimo, quali voci daremo ai nostri computer o ai nostri robot?
Spendendo tutta la nostra energia uditiva prestando attenzione soltanto alle cose che non ci piacciono, stiamo perdendo così tanto. Tutte le lamentele – per l’h calante, una r di troppo e simili – sono meno del 5% di tutto ciò che si verifica quando pronunciamo le nostre parole o frasi. Così il mio manifesto fonetico per il ventunesimo secolo – e il tema del mio libro – è: È il momento di focalizzarsi sul restante 95%. Come disse una volta Anthony Burgess (in “A Mouthful of Air”): “Fonetica, fonetica e ancora fonetica: Non può esserci troppa fonetica”.

theguardian.com, 13/01/2018

Traduzione: Corsetti Francesca, stagista presso l'OEP