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Perché è più facile imprecare in una lingua straniera?

Secondo una ricercatrice finlandese il bilinguismo libererebbe il linguaggio e la facilità di dire le parolacce.
“L’imprecazione è un linguaggio conosciuto da tutti”, ci confidava recentemente lo scrittore Jean-Paul Morel autore de Il meglio degli insulti e altri nomi di uccelli. È un fatto. Ogni volta che urtiamo qualcosa o che un evento imprevisto si verifica, noi preferiamo delle volgarità. “È una reazione epidermica”. Impossibile fermarsi. Al di là di tutto, la caratteristica della scorrettezza è la spontaneità.
Ma le parole che noi scegliamo hanno un senso. In effetti, non imprechiamo allo stesso modo secondo che ci troviamo in famiglia, coi colleghi o tra amici. E a maggior ragione quando ci troviamo all’estero. Wilhelmiina Toivo, studentessa di psicologia dell’Università di Glasgow (Scozia), ne è convinta. Le lingue straniere liberano la parola. In un dibattito pubblicato questa settimana nel giornale Guardian, la dottoranda finlandese spiega che esiste “una debole implicazione emotiva nella scelta delle parolacce”, ogni volta che le utilizziamo in un’altra lingua.
Per dare un fondamento alla sua analisi, Wilhelmiina Toivo utilizza in parte anche la sua esperienza. Cresciuta secondo i principi liberali del padre, il quale condannava fortemente il linguaggio scurrile, la giovane donna spiega di non essersi mai sentita a suo agio con le parolacce. “O almeno, è ciò che pensavo”, scrive lei. Una volta arrivata in Scozia, a mille miglia da casa sua, Wilhelmiina si rende conto che in realtà è molto facile imprecare in inglese. “Insieme alle mie altre sette coinquiline, venute da tutta Europa, discutiamo di tutto: la paura di vivere all’estero, l’amore/ l’odio, il sesso, la morte...”. Non c’è nessun argomento troppo privato che non possa essere evocato. “Mentre sarebbe stato il caso nella mia lingua madre”.
“Se ci si sente meno connessi alla lingua che si parla, è più facile utilizzare un linguaggio emozionale”.
Tuttavia, non ha nulla a che vedere con il cliché degli “studenti che sarebbero senza vergogna tra di loro”, indica Wilhelmiina. “Imprecare e parlare delle mie emozioni non era diventato più facile perché facevamo tutti parte della stessa comunità studentesca, o perché ci sentivamo più liberi lontani da casa per la prima volta nella nostra vita”. La dottoranda, in realtà, osserva questo “distacco emotivo” in tutti quegli individui che evolvono in un ambiente plurilingue.
Molte persone bilingui dicono in effetti “di avvertire meno le cose” quando parlano nella loro seconda lingua. “Un idioma”, precisa la ricercatrice, “che non ha lo stesso peso emozionale di quello madre”. Un modo di giustificare l’uso più frequente di parolacce da parte delle persone bilingui? Può essere. “Se ci si sente meno connessi alla lingua che si utilizza, sarà allora più facile utilizzare un vocabolario che si appella alle emozioni”.
Una dilatazione incontrollata delle pupille
Se il fenomeno è conosciuto, precisa Wilhelmiina, diverse questioni rimangono tuttavia irrisolte. Come può essere per esempio che una seconda lingua possa avere una “risonanza emotiva” ridotta? Provocano tutte questo sentimento? Che ne è dell’età degli individui, del contesto e della frequenza nell’utilizzo della lingua? Ognuno di questi fattori ha il suo impatto?
Al fine di chiarire queste domande, Wilhelmiina ha immaginato di sottomettere delle persone bilingui a quello che viene chiamato in gergo scientifico “la tecnica dell’eye-tracker”, o l’analisi del movimento dell’occhio. Il progetto è semplice: far vedere a dei soggetti plurilingui delle immagini o delle parole che hanno una forte portata emozionale nella loro lingua madre e osservare le loro pupille. “Le ricerche precedenti hanno mostrato che l’impatto emozionale – dilatazione delle pupille – era più debole nella lingua straniera. Mentre negli altri individui, le pupille reagivano anzi fortemente in maniera incontrollata”, continua Wilhelmiina.
“La lingua è molto più che un mezzo di comunicazione”.
Queste reazioni permettono così di apprendere meglio i meccanismi delle lingue straniere e dei fenomeni di adattamento e di acculturazione. “Perché, precisa la ricercatrice, anche se le vostre competenze linguistiche sono buone, non essere capaci di fondersi completamente nel proprio ambiente grazie alla lingua può portare a un sentimento di alienazione e anzi all’esclusione”. Da qui l’impressione di passare a volte per cafone quando ci si sbaglia nella traduzione...
Ad ogni modo, ci rassicura Wilhelmiina, questo fenomeno scientifico non ha soltanto degli aspetti negativi. Così questa “risonanza emotiva ridotta” permette alle persone bilingui di essere viste come degli individui più capaci di prendere delle “decisioni razionali” rispetto ai loro connazionali che parlano solo la loro lingua madre. Ma non è tutto! Grazie al loro distacco emotivo, i soggetti bilingui possono anche essere percepiti come degli ascoltatori attenti.
Dal momento che siamo nell’era della globalizzazione, allora è utile e anzi necessario comprendere le leve del plurilinguismo. “Non sono soltanto due idiomi quelli che sono stati trasmessi alla nascita da dei genitori bilingui...La lingua è assolutamente qualcosa in più che un mezzo di comunicazione, è una maniera per comprendere il mondo che ci circonda, di definire la nostra realtà e, conclude Wilhelmiina, di capire finalmente cos’è l’essere umano”.

Fonte: lefigaro.fr, 02/04/2017

Traduzione: Francesca Corsetti, stagista presso l'OEP